Recupero Sassi di Matera

I Sassi di Matera: da vergogna nazionale a patrimonio dell’umanità

Prima della Storia

E’ consuetudine parlare di storia a partire dall’esistenza di documenti scritti. Per questo Erodoto, autore della monumentale descrizione del mondo e dei popoli redatta nel V sec. a. C., è comunemente designato come il “Padre della Storia”. Ma per la storia delle città e in particolare per luoghi dalle radici arcaiche come quello di Matera le fonti significative vanno ben oltre i riferimenti letterari e archivistici. Nella ricostruzione delle origini e della evoluzione urbana costituiscono elementi determinanti le tracce lasciate sul territorio e quelle incise nella memoria collettiva, incorporate nelle consuetudini e nella cultura delle genti. Vanno quindi interrogate le vestigia e i minimi reperti insediativi, ma anche le costanti tipologiche perpetuatesi nei modi costruttivi come pure i messaggi tramandati nelle consuetudini e nella cultura immateriale. “Non c’è storia nel Mediterraneo senza preistoria”, scrive Fernand Braudel (Braudel 1998). E, infatti, per comprendere la genesi urbana di Matera è necessario collocare la città nei fenomeni culturali parte del mondo arcaico mediterraneo. In quei modi di abitare che nel rapporto con la rudezza dei luoghi ne hanno introiettato la natura armonizzandosi ad essa per gestirne le rare risorse ed edificare il paesaggio traendo da esso le migliori potenzialità. Matera è esempio straordinario di questo processo che vede nei Sassi la completa fusione con l’ambiente tanto che l’abitato compenetra la roccia stessa per farsi città di pietra e sotterranea, intimamente legata alla terra madre e matrice. La sua nascita si colloca quindi nel contesto
mitico delle originarie genti mediterranee citate dallo stesso Erodoto che per primo le evocò coniando il termine trogloditi: coloro che penetrano nelle caverne (Erodoto, Le Storie, IV, 31).

Matera è ancora oggi spesso letta come una città medievale o addirittura moderna ricostruita a partire dal Cinque-Seicento (Fonseca 1999) senza considerare che tutti i centri abitati vivono momenti di abbandono e di recupero, ma questo non deve impedire di collocarli in una continuità culturale più ampia di lungo e di lunghissimo periodo. E la corrente antica del tempo va risalita a Matera fino alle radici preistoriche indispensabili per comprendere la genesi e la natura della città. L’alveo del Sasso Barisano può apparire un abitato medievale, con la cattedrale in cima e una strada sul fondo, ma in realtà le strutture costruite sono l’estroflessione di una situazione più nascosta, sotterranea. Le facciate palazziali sono solo una camicia di tufo posta sopra un insieme di grotte, di gradoni terrazzati, come è bene apparante nel Sasso Caveoso. La stessa strada di circonvallazione è un intervento estraneo realizzato interrando un torrentello, il cosiddetto “grabiglione’” dal ruolo determinante per la comprensione e il mantenimento dell’ecosistema complessivo. E’ da questi elementi di funzionalità ecologica, dalle radici ipogee nascoste che, nel passato lontano quanto quello delle più antiche città al mondo, prende le mosse l’evoluzione urbana di Matera. I Sassi sono l’esempio ancora vivente di quel mondo primordiale, chiamato appunto Età della Pietra, qui miracolosamente conservato fino alle soglie della modernità. Si abitarono e scavarono le grotte per motivi climatici e difensivi, ma anche per utilizzare al meglio le potenzialità dei luoghi, captare l’acqua e risparmiare i suoli. In tutto il bacino mediterraneo meridionale, nelle sue isole e penisole, le condizioni climatiche ad andamento alterno e catastrofico, con precipitazioni concentrate in pochi mesi dell’anno e stagioni aride, impongono una gestione accurata delle risorsa acqua non presente allo stato libero, lacustre o fluviale, e accorgimenti per controllarne la variabilità nel tempo e gli effetti dirompenti sui pendii. La città dei Sassi di Matera non è localizzata nel fondo del canyon della Gravina come dovremmo aspettarci se fosse questo a fornire la risorsa idrica, ma in alto, lungo l’altopiano e i suoi bordi scoscesi. E’ infatti l’acqua dei cieli, la pioggia e la brina, raccolta nei drenaggi e nelle caverne, la risorsa dei labirintici complessi trogloditi dei Sassi e delle altre città di pietra delle Gravine. L’attività umana è attestata fin dal periodo Paleolitico dai numerosi reperti litici rinvenuti nella Grotta dei Pipistrelli e dal ritrovamento di uno scheletro intero di ominide rinvenuto in una cavità carsica nei pressi di Altamura databile intorno ai 250.000 anni fa. A Matera la Grotta dei Pipistrelli abitata fino alle epoche storiche (Lo Porto 1988) è una formazione naturale, ma la sua struttura costituita da un cunicolo con un ingresso affacciato sul pendio e l’altra estremità emergente tramite un inghiottitoio carsico sul piano è un modello per le realizzazioni artificiali successive.

I villaggi delle origini

Con il neolitico, a partire dal VII millennio, appaiono le prime forme di insediamento stabile con le tecniche di scavo dell’altopiano calcareo e di raccolta delle acque che hanno nei Sassi continuità fino all’epoca contemporanea. Cisterne a campana, tracciati di capanne, canalette sono racchiusi in profondi fossati formanti cerchi e ellissi e per questo chiamati villaggi trincerati (Ridola 1926). I fossati non avevano uno scopo difensivo, ma erano funzionali alle pratiche neolitiche di allevamento e di coltivazione. Dalle analisi delle foto aeree che evidenziano i perimetri per la vegetazione più folta appaiono sistemi di drenaggio come quelli della Daunia (Tinè 1983, Leuci 1991), di raccolta di acqua, di humus e labirintici corral necessari alle pratiche della vita agropastorale. Il recente scavo del complesso neolitico di Casale del Dolce nei pressi di Anagni ha fornito una autorevole conferma di questa ipotesi (Zarattini e Petrassi, 1997). Significativo a questo proposito è il caso del fossato di Toppo Daguzzo in Basilicata. Questo è munito con opere di notevole impegno che alla fine dell’Eneolitico – inizi dell’Età del Bronzo appaiono cancellate (Cipolloni Sampò, 1999). In particolare sono evidenti i resti di una palizzata e di un muro del quale è rimasta la base costruita in grandi blocchi di pietra e pietre di fiume. E’ sembrata inspiegabile la collocazione del muro che cinge esternamente il fossato in contraddizione con qualsiasi logica militare. Nell’ipotesi dell’uso come rifornimento d’acqua del fossato la costruzione del muro trova una sua logica
di protezione della preziosa struttura idrica. Nell’insediamento di Murgia Timone a Matera un’area di circa 2 ha è racchiusa da un grande scavo ellittico che ha in uno dei due fuochi un cerchio interno più piccolo. L’ellisse ha il diametro maggiore in direzione Est – Ovest e ai suoi apici, con perfetto orientamento, sono posti i due ingressi al villaggio. Nasce in questo momento il concetto di “luogo” con i suoi molteplici valori, funzionali, estetici e simbolici. “Lucus”, una delle possibili etimologia del termine Lucania, è la radura in mezzo alla boscaglia in cui penetra la luce, è lo spazio di identità e di civiltà separato dal mondo selvaggio. Le abitazioni sono formate da strutture capannicole sparse anche al di fuori dei perimetri attrezzate con cisterne e fosse per i grani. In questa fase la costruzione dell’insediamento è allo stesso tempo strutturazione del territorio e l’espansione abitativa si fa con la moltiplicazione del modello. Sia materialmente che simbolicamente l’organizzazione del villaggio si identifica con quella dello spazio produttivo. I grandi cerchi neolitici, con i fossati e le attività ad essi collegate, erano i motivi del successo della comunità e ne costituivano anche il segno di identità. Il loro uso variava in sintonia con l’avvicendarsi delle stagioni marcando con compiti differenziati il ciclo degli avvenimenti climatici. Per questo i perimetri dei villaggi erano installati con precisi orientamenti astronomici e l’organizzazione spaziale, codificata nelle conoscenze tradizionali, era considerata artefice e garante del corretto svolgersi del tempo, essa stessa immagine dell’armonia del cosmo.

Transumanza e reticolo territoriale

L’età dei metalli fornisce i nuovi strumenti che facilitano lo scavo di grotte e cavità. Queste con il peggioramento ambientale risultano sempre più adatte all’insediamento umano. Infatti la progressiva scomparsa del manto vegetale lascia i villaggi in superficie senza riparo, i suoli indifesi e determina la penuria di materiali lignei per la costruzione e il riscaldamento. Il clima vede l’alternanza di inverni freddi e di estati torride. La carenza di acqua rende indispensabile le pratiche di raccolta meteorica e di conservazione sotterranea. Originato nelle tecniche neolitiche di scavo delle miniere si afferma il tipo abitativo delle corte a pozzo da cui si diramano le gallerie radiali. Il modello presente in altre aree lontane come a Matmata in Tunisia e nelle pianure aride cinesi è all’origine della casa a corte utilizzata dai sumeri, diffusa nel mondo classico e islamico. L’abitazione rinvenuta nei pressi del sito neolitico di Murgia Timone prospiciente i Sassi di Matera mostra i vantaggi di questo tipo costruttivo. La forma rettangolare simile ai megaron cretesi è ripartita in tre spazi formati da due ambienti aperti e un terzo ipogeo. La corte funge da impluvio per l’acqua e da spazio aperto e assolato, ma protetto perimetralmente, per le lavorazioni alimentari. La parte terminale, utilizzata per raccogliere i rifiuti e creare l’humus, è il giardino scavato nella pietra indispensabile a causa della povertà dei suoli e della necessità di riparare le piante. Le cavità hanno temperatura costante durante tutto l’anno, costituiscono i ricoveri ideali per gli uomini e per gli animali, per lo stoccaggio dei grani e la conservazione dell’acqua. E’ interessante notare che dopo il rinvenimento di questa struttura e la sua liberazione dai sedimenti la cisterna nella parte ipogea ha cominciato a riempirsi d’acqua in assenza completa di pioggia. Il dispositivo ha quindi ricominciato a operare utilizzando le infiltrazioni capillari e la condensazione. Sono in rapporto con pratiche di raccolta dell’acqua a scopo funzionale e rituale anche i tumuli dell’età del bronzo formati da un doppio cerchio attraversate da un corridoio recante all’ambiente centrale scavato. E’ significativo, infatti, che queste strutture siano state inserite proprio lungo lo scavo degli arcaici recinti neolitici, abbandonati al momento di queste realizzazioni, ma funzionanti ancora come convogliatori di umidità. Le opere rinvenute a Matera sono del tutto simili alle strutture preistoriche formate da tumuli e ambienti ipogei del Sahara (Laureano 1995). Si tratta delle cosiddette tombe solari costituite da anelli concentrici intorno a un tumulo. Esse possono costituire antichi metodi di raccolta dell’umidità e della brina e rapportarsi a culti collegati a tali pratiche. Allo stesso scopo possono essere interpretate le strutture di pietra a secco diffuse nelle terre aride delle Puglie dove gli accumuli di pietre raccolgono la brina notturna e riforniscono di umidità il terreno (Nebbia 1961, Cantelli 1994). Infatti le radici di ulivi centenari sono tutti rivolti verso i muretti che caratterizzano il paesaggio agrario. Sono quindi strutture di condensazione e conservazione dell’acqua i muri, i tumuli, i trulli e gli ammassi di roccia calcarea chiamati specchie. I dispositivi assolvono la loro funzione sia di giorno che di notte. Sotto il sole cocente il vento con tracce di umidità si infiltra tra gli interstizi del cumulo di pietre le quali hanno una temperatura inferiore nella parte interna perché non esposta al sole e raffrescata dalla camera ipogea sottostante. L’abbassamento di temperatura provoca la condensazione di gocce che precipitano nella cavità. La stessa acqua accumulata fornisce ulteriore umidità e frescura amplificando l’efficacia della camera di condensazione. Durante la notte il processo si inverte e la condensazione avviene esternamente ma produce risultati analoghi. Sulla superficie esterna delle pietre più fredda si condensa l’umidità e deposita la brina che scivola negli interstizi e si raccoglie nella camera sotterranea. Dove le precipitazioni sono presenti, anche se in modo sporadico, a questi dispositivi sono associate le superfici di raccolta delle acque di pioggia che evolvono in architetture a terrazza o a corte organizzate a questo scopo. Sono proprio i templi e i monumenti cultuali a svolgere la funzione di captazione dell’acqua tanto che nel corso del tempo diventerà così sempre più difficile risalire all’identificazione funzionale delle opere. Come per i tumuli, i kurgan, la tholos si attua un processo di utilizzazione da parte delle costruzioni sacre delle forme delle strutture idriche. Questo sia per l’uso concreto dell’acqua nelle cerimonie religiose e funerarie, sia perché la sapienza idrica era spesso veicolata dalle personalità sacre o eroiche, sia per il solo scopo simbolico di richiamare nel mausoleo funebre le architetture delle strutture produttrici di acqua, fonte di vita. I clan familiari, attraverso i mausolei e i riti collegati, celebrano gli antenati rafforzando l’identità di gruppo e marcando i punti strategici di percorrenza. In tal modo si afferma il concetto di territorio costituito da una rete di centri che, tramite la transumanza stagionale, agiscono in modo integrato, sfruttando differenti ecosistemi. La prova di tali pratiche, gia avanzate a metà del II millennio, si è avuta in Italia centrale dove studi di archeologia del paesaggio (Barker 1996) hanno verificato la connessione tra villaggi di altura, percorsi marcati dai dispositivi d’acqua e complessi cultuali, stazioni di sosta e pascoli.

Città di pietra, di acqua e di luce

Aristotele nella Politica (VII, 9), riferisce che i primi abitatori della Lucania, gli Enotri, erano nomadi e che il loro re Italo, da cui deriva il nome Italia, creò l’agricoltura e istituì leggi e ordinamenti. Il fondamento di queste istituzioni era la pratica, che Aristotele dice ancora in uso tra i Lucani ai suoi tempi, dei syssitia o banchetti in comune. Questi convivi erano feste solenni, tra il religioso e il civile, celebrate intorno a luoghi collettivi e santuari che sanciscono il consolidarsi di comunità permanenti e organizzate. Attraverso queste pratiche e sulla base del reticolo di percorsi, santuari e villaggi stabili della transumanza, si realizza il passaggio da un sistema insediativo disseminato sul territorio alla creazione della città. A Matera non si assiste a un così repentino e massiccio fenomeno di organizzazione urbana come quello verificatosi nella vicina Silbíon o Silvium, l’attuale Botromagno a Gravina in Puglia, dove nell’VIII sec. a. C. sotto la spinta della prima colonizzazione greca, i Peucezi realizzano grandi cinte murarie e imponenti opere di terrazzamento (Ciancio 1997, AA. VV. 2000). Tuttavia progressivamente anche a Matera, da un insieme di villaggi sparsi sui cigli degli altipiani e nei luoghi elevati come Murgia Timone, Murgecchia, Serra d’Alto, Tirlecchia, Piazza S. Francesco, Cappuccino, La Civita, Castelvecchio, il Castello, Ospedale Vecchio si passa a un modello basato sull’intensificazione di situazioni più idonee. Il sito degli attuali Sassi di Matera conosce uno sviluppo privilegiato perché qui il banco di calcarenite tenera facilmente scavabile è più spesso. Le tracce di occupazione dell’Età del Bronzo e del Ferro (Bracco 1935, 1936, Bianco 1986) in tutte le zone di futura espansione mostrano che il processo di urbanizzazione non si è svolto a macchia d’olio a partire da un unico centro, ma è avvenuto come densificazione urbana di una trama preesistente a carattere multinodale. I luoghi dell’attività agricola e pastorale, unità di produzione, punti di riferimento familiari legati a un tumulo, a una cisterna d’acqua, a una grotta, evolvono in strutture socio economiche organizzate per la difesa e il culto e dotate di attività di produzione e di servizio, dai mulini alla tessitura ai magazzini delle derrate destinate al mercato. E’ il lungo processo che porta alla costituzione di un centro comune. I Re Pastori degli antichi popoli italici si incontrano, scambiano alleanze e patti: nasce la civitas. Questo concetto di cittadinanza, comunità, è espresso nell’antica lingua dei Lucani, l’osco, dalla parola touta citata in una tavola di bronzo rinvenuta a Banzi. L’iscrizione risale al II sec a. C. e conferma in età romana la testimonianza di Aristotele sull’abitudine dei popoli lucani di celebrare convivi comuni. Scritta in latino ed osco, la tavola riporta le norme dei pubblici comizi, i raduni rituali in cui si rinsaldavano e solennizzavano i vincoli e si davano le norme. Nella tavola di Banzi, tuttavia, le leggi sono oramai quelle di Roma che impone un ferreo controllo militare a tutta la regione. I Lucani erano stati alleati di Pirro e successivamente di Annibale e la repressione latina nei loro confronti è durissima. La Lucania viene devastata e saccheggiata. Le popolazioni trovano la possibilità di resistenza all’annientamento economico e demografico nelle rudi caratteristiche del paese. Offrono nascondiglio e difesa le rupi impervie e i valloni segreti dove l’uso parsimonioso delle risorse rare e i sapienti modi di abitare permettono alle genti di vivere protetti da un ambiente di cui soli conoscono le dure leggi. Le travagliate vicende storiche successive, vedono l’avvicendarsi di Bizantini, Longobardi, Normanni, Arabi, Slavi e Aragonesi. Rinnovate e vivificate dai nuovi apporti, le antiche tradizioni si conservano costituendo la matrice costante su cui si svolge il processo evolutivo. Dopo il collasso dell’Impero romano le popolazioni ricominciano lentamente a crescere ramificandosi di generazione in generazione. Nello stesso tempo si estende l’abitato umano aggiungendo ad una cellula un’altra e poi un’altra ancora in una dinamica di trasformazione delle tipologie sapientemente descritta dallo storico lucano del XIX sec G. Racioppi (Racioppi 1889). Sviluppando le originarie tecniche preistoriche si realizza nei Sassi di Matera un sistema di habitat adattato che utilizza in modo combinato i diversi principi di produzione dell’acqua: la captazione, la percolazione e la condensazione. Durante le piogge violente terrazzamenti e sistemi di raccolta dell’acqua proteggono i pendii dall’erosione e convogliano per gravità le acque verso le cisterne nelle grotte. Nella stagione secca le cavità scavate funzionano durante la notte come aspiratori di umidità atmosferica che si condensa nella cisterna terminale degli ipogei, sempre piena anche se non collegata con canalette esterne. Si creano molteplici piani di ipogei sovrapposti dalle lunghe gallerie che si affondano obliquamente nel sottosuolo. L’inclinazione permette ai raggi del sole di penetrare fino in fondo quando c’è più necessità di calore. In inverno, infatti, i raggi sono più obliqui e penetrano gli ipogei. Nella stagione calda il sole più vicino allo zenit colpisce solo gli ingressi degli ipogei lasciandoli freschi e umidi. La soluzione tecnica e funzionale è allo stesso tempo carica di una forte valenza simbolica. Il connubio fra il sole e la terra genera l’acqua: la vita. La situazione attuale dei Sassi di Matera è il risultato dell’evoluzione e saturazione urbana della struttura arcaica agro pastorale. Con gli stessi blocchi di calcaree scavati dall’interno delle grotte si costruiscono strutture di tufo dalla volta a botte, i lamioni, che costituiscono una proiezione all’esterno degli ambienti ipogei. Di un complesso di grotte sono quelle laterali ad essere prolungate in avanti con i lamioni così si tende a chiudere a ferro di cavallo la radura terrazzata e si realizza uno spazio centrale protetto. Quello che era l’orto irrigato e l’aia pastorale si trasforma nel luogo di riunione della famiglia allargata e di scambio comunitario e sociale: l’origine del vicinato celebrato negli studi di antropologia (Tentori 1956). Nella corte è scavata la grande cisterna comune che raccoglie ora le acque dai tetti. Questi per rispondere a tale scopo non hanno mai le falde che sporgono esternamente alle abitazioni. Il tetto è compreso nelle murature che permettono di non sprecare una sola goccia di pioggia e di convogliarla tramite discendenti di terra cotta nella cisterna. Il gradone sovrastante si trasforma in giardino pensile. Le linee di scorrimento laterali delle acque divengono le scale e i collegamenti verticali del complesso urbano. La trama dei percorsi e delle stradine si forma seguendo il sistema di canali e questo ne spiega l’aspetto intricato, apparentemente inspiegabile, ma frutto della originaria matrice idrica (Laureano 1993). Il monachesimo medievale fornisce nuova linfa a questo arcaico tessuto. Gli eremi, le parrocchie, i casali agricoli collocati nei punti di controllo delle opere idrauliche sono i poli del processo di crescita urbana. Intorno ai due drenaggi principali dei “grabiglioni” che forniscono terreno coltivabile e humus attraverso la raccolta dei liquami, si formano i due comparti urbani chiamati Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Al centro è la Civita, l’acropoli fortificata, l’antico rifugio in caso di pericolo, su cui, nel XIII sec. su una cripta più antica, viene edificata la Cattedrale. Ai margini dell’altipiano dove sono le grandi cisterne e le fosse, i silos rupestri per lo stoccaggio dei grani, si localizzano le botteghe e i laboratori artigiani. Lo svolgimento verticale della città permette l’utilizzo delle gravità per la distribuzione delle acque e protegge dai venti che spazzano l’altipiano. Matera si abbellisce di centinaia di chiese rupestri scavate nella roccia e decorate di magnifici affreschi bizantini o edificate sul piano con facciate monumentali scolpite nel tufo secondo gli stili del periodo di costruzione, medievale, classico o barocco.

Da città a periferia: i sassi vergogna nazionale

Il sistema armonioso e geniale rimane pressoché intatto per tutti i secoli successivi. I Sassi continuano a svilupparsi lungo i pendi sui gradon
i terrazzati e si estendono nel piano con corti a pozzo centrale e gallerie ipogee radiali. Nel Quattrocento e nel Cinquecento un nuovo sistema di porte e di fortificazioni munisce la Civita e la città che si abbellisce di chiese, complessi monumentali e residenziali. Ma nei secoli successivi la lenta agonia della economia agro pastorale meridionale determina la fine della centralità economica dei luoghi ipogei fondamentali per le lavorazioni casearie e laniere. Nel corso del Settecento e dell’Ottocento le sedi del potere economico e religioso abbandonano i pendii rupestri del canyon della Gravina per edificare conventi e edifici amministrativi sul piano lungo il margine del vallone distruggendo o occultando le fortificazioni cinquecentesche e occupando la parte della città dove avevano sede le attività commerciali e i sistemi di stoccaggio dei grani e delle acque. Così progressivamente i foggiali (fosse per il grano), le cisterne, i vicinati a corte ipogea ed i giardini del piano vengono seppelliti dai riempimenti e sotterrati dalle strade e dai palazzi della nuova fisionomia urbana. Tale dinamica è perfettamente leggibile negli ipogei sottostanti l’attuale Piazza Vittorio Veneto. Lo stravolgimento completo della trama antica avviene nel 1936 con i progetti di realizzazione viaria del governo fascista. I due torrentelli dei grabiglioni che drenano i grandi alvei nei quali sono organizzati i Sassi, il Barisano ed il Caveoso, sono interrati e lastricati. Da sistema di convogliamento dell’esubero idrico e di smaltimento delle acque usate divengono due strade rotabili collegate tra di loro per formare una via di circonvallazione che unisce i Sassi. L’intervento di viabilità è una vera operazione di sventramento che attua penetranti estranee all’organizzazione tradizionale del tessuto urbano fatta di scalette e di passaggi sotterranei percorribili a piedi o a dorso d’asino. Il margine della rupe della Civita sul canyon della Gravina viene tagliato sezionando grotte, cisterne, abitati rupestri e vicinati e interrompendo i sentieri di collegamento con l’altopiano murgico antistante. Sul piano la distruzione definitiva della rete capillare di raccolta idrica antica determina una dipendenza completa dai metodi di approvvigionamento moderni che, costantemente carenti, lasciano gli abitanti in condizione di assoluto disservizio. Così, dalla parte del piano e da quella del pendio, i Sassi risultano separati rispettivamente dall’altopiano e dalla valle della Gravina, l’insieme naturale a cui erano sempre stati strettamente connessi determinando il collasso del sistema ecologico millenario. Il conflitto mondiale e le difficili condizioni del dopoguerra, con l’esodo dall’entroterra e le campagne, accentuano la densificazione e la promiscuità abitativa dei Sassi che, con circa 17.000 abitanti, costituivano ancora la quasi totalità della città di Matera. I vicinati, le case a corte, gli stessi palazzi di prestigio si frantumano in più unità dove ogni famiglia è ridotta a vivere in quella che era solo una cellula di un sistema polifunzionale e integrato. Divengono abitazioni le grotte deposito, le cavità per gli animali, gli orti e le stesse cisterne. La trasformazione in ambienti domestici di quest’ultime elimina il simbolo stesso della genialità storica dei Sassi. Con il tempo si perde anche la memoria della loro forma e funzione e diviene illeggibile il sistema di gestione delle risorse su cui è fondata la trama urbana. Queste condizioni spiegano la definizione dei Sassi come “vergogna nazionale” che portò al loro svuotamento per motivi igienici e sanitari. Niente giustifica tuttavia l’estensione dell’operazione a tutto il tessuto di circa 3000 abitazioni di cui solo una metà era stata censita come malsana (Mazzarone 1956, Inu UNRRA Casas 1973). Lo svuotamento operato con la legge del 1952 non tenne conto delle stesse indicazioni degli esperti (Tentori 2001) e riguardò non solo le case grotta, ma anche edifici in buone condizioni, palazzi monumentali e complessi riadattabili con la semplice introduzione di servizi efficienti. E’ la necessità di creare una nuova economia basata sulla edilizia a motivare un intervento così massiccio. I finanziamenti pubblici per riallocare gli abitanti dei Sassi permettono la costruzione dei celebri quartieri modello decentrati verso la campagna (Restucci 1991). Tra questi e il centro settecentesco limitrofo ai Sassi si determina una fascia dotata delle urbanizzazioni e di grande valore fondiario. Area che diventerà la città nuova di cui i quartieri costituiranno la periferia. Negli anni seguenti anche questi ultimi, pure frutto delle più avanzate proposte architettoniche e urbanistiche, furono abbandonati a riprova della non responsabilità delle condizioni abitative dei Sassi nella dinamica migratoria. L’esodo dai Sassi è stato reso possibile dalla pressione di uno shock culturale violento, il trionfo del paradigma della vergogna, determinato dall’impossibilità della civiltà e dell’abitato tradizionale, già minato dalle trasformazioni strutturali descritte, di reggere il confronto con la edificazione, prepotentemente condotta nel dopoguerra italiano, del sistema dei valori economici e culturali della modernità. Consapevoli o meno che ne fossero i protagonisti del periodo, la colpevolizzazione dei Sassi e il trasferimento dei suoi abitanti si inquadra nelle dinamiche di espulsione dall’agricoltura e di emigrazione meridionale finalizzate all’industrializzazione e all’affermazione del modello consumistico.

I Sassi di Matera tra l’estetica populista e il potere del mattone

Contributo determinante alla formazione di un immaginario dei Sassi fu la poetica di Carlo Levi che diffuse in tutto il mondo le descrizioni da “girone di inferno” riportate nel “Cristo si è fermato ad Eboli” (Levi 1945). Levi, pur raccontando un luogo marchiato dalla povertà e dalla subordinazione sociale, esalta i Sassi e la civiltà contadina creandone una valorizzazione fascinosa. Una volta compiuto lo svuotamento nel corso degli anni ‘60, questa estetica della miseria è il riferimento portante di un filone di pensiero che apprezza i Sassi come un mondo perduto in qualche modo da salvare come testimonianza intoccabile, museale, resa necropoli o “foro romano” della disperazione (Levi 1967). Da tale posizione ne diramano due distinte, una moderata, più operativa, l’altra ideologico populista. La prima ha per protagonista il gruppo della Scaletta attivo nel riconoscimento e nel rilievo dettagliato delle chiese rupestri, immenso patrimonio di affreschi, cripte e vere basiliche ipogee presenti nei Sassi e nell’altopiano murgico quasi completamente sconosciute e sottoposte ad azioni di rapina e di vandalismo accentuatesi con il trasferimento degli abitanti. Contributo della Scaletta è quello di avere resa nota con accurate pubblicazioni (La Scaletta 1966) questa realtà e portato l’attenzione sull’insieme naturalistico (Tommaselli 1988). L’ottica è quella dell’apprezzamento del monumento isolato in un contesto di ruderi tanto più seducenti quanto più tali. La seconda posizione è improntata da una visione ideologica secondo la quale i Sassi sono la prova di una discriminazione sociale, cristallizzazione fisica anche nella loro conformazione dall’alto verso il basso di una gerarchia di potere (Giura Longo 1966). Come tali essi assurgono ad un significato emblematico. Risulta, quindi, difficile fare proposizioni non caratterizzate da una forte connotazione ideologica, uniche capaci di riscattare il senso di colpa che si determina nell’intervenire in un luogo a cui è affidato il ruolo di simbolo populista. In questo contesto culturale nasce la mobilitazione nazionale di intellettuali che sfocia nel Concorso Internazional
e di Idee del 1974. Le ambiguità del dibattito sono rappresentate dalla stessa relazione introduttiva ai partecipanti al concorso redatta da Manfredo Tafuri che sposa le ipotesi estreme invitando in pratica alla non progettazione (Tafuri 1974). La disparità delle idee presentate riflettono la confusione culturale con proposte che vanno dal trasformare i Sassi in uno scenario da film, allagarli d’acqua o ammirarli da un ponte che unisca le due sponde della Gravina, a progetti più concreti improntati al recupero. Rientra tra questi ultimi la proposta del gruppo di Tommaso Giura Longo che inserisce i Sassi nella problematica dei centri storici oggetto in quegli anni in Italia di importanti esperienze. L’ottica è quella del risanamento e della modernizzazione con l’individuazione di aree da demolire perché considerate incompatibili con un odierno e funzionale centro abitato, la valorizzazione di altre e la realizzazione di un discutibile varco scenico e una penetrante tra la piazza principale di Matera e il Sasso Barisano. Il progetto in quanto meglio classificato, pur non avendo la commissione stabilito un vincitore, sarà di fatto considerato tale e, con l’affidamento al gruppo dei Piani di Recupero, determinerà le azioni future dell’Amministrazione Comunale. Nel 1986 è varata la legge di “Conservazione e recupero” dei Sassi di Matera che affida al Comune il ruolo e le risorse per affrontare il risanamento dando la possibilità a operatori pubblici e privati di ottenere ambiti nei Sassi e un contributo agli oneri di restauro. I primi interventi operativi sono realizzati dai Lavori Pubblici tramite i fondi FIO. Si tratta di opere di consolidamento operate con tecniche largamente invasive. Si fa uso della pompa a pressione praticando fori nella calcarenite e iniettando cemento nel quale vengono affogate le chiodature. La tenera roccia di cui sono fatti i Sassi è così appesantita e irrigidita. I materiali introdotti hanno coefficienti di traspirabilità e rapporti di dilatazione contrastanti con le strutture antiche che, perdendo gradi di flessibilità, sono più soggette a lesioni. Inoltre il cemento non lega per contrastante reazione chimica e meccanica con il materiale calcareo. Spesso la pompa incontra cavità e cisterne che vengono completamente riempite di cemento creando sovraccarichi insostenibili e sconvolgendo il normale drenaggio idrico. Questi interventi sono condotti in una logica di massimo profitto realizzando più iniezioni possibili. Si usano le normative applicate per i consolidamenti dovuti a disastro sismico incalottando le volte a botte con cemento e reti elettrosaldate. Nell’interno la tipologia è alterata da architravi di cemento armato inserite nella muratura di tufi per permettere luci più ampie e da pavimenti ventilati che alterano il piano di calpestio squilibrando i volumi originari. I prospetti sono aggrediti dalla pratica a larga scala del cuci e scuci operata sulle strutture murarie e dalla regolarizzazione delle finestre e dei ballatoi. Si privilegia l’intervento sulle parti alte delle abitazioni decretando le cavità ipogee inutilizzabili a causa dell’umidità. Quando non si occludono completamente le grotte si innalza un muro isolato tramite schiuma e pannelli sintetici per separare la parte prospiciente all’entrata da quelle più profonde considerate irrecuperabili. Il risultato è una zona non areata e non illuminata accumulatrice di umidità e di muffa che a un dato momento invaderà tutta l’abitazione. Gli stessi risultati negativi si provocano cercando di contrastare l’umidità impermeabilizzando internamente con prodotti chimici le pareti. In questo modo è la stessa traspirazione degli abitanti non più assorbita dalle murature a creare i fenomeni di condensazione accentuati dall’introduzione di infissi moderni a tenuta ermetica. Le murature esterne sono sottoposte ad abrasione profonda con strumenti a rotazione meccanica o spazzole manuali cancellando le patine del tempo e lasciando esposta la superficie sottostante dei conci di tufo che è più tenera e attaccabile dagli agenti atmosferici. La difesa da quest’ultimi è attuata con un largo impiego di protettivi chimici che creano pellicole non traspiranti e estese macchie di umidità causa di sfarinamento, sfogliazione e definitivo distacco degli strati. Si ovvia a questi inconvenienti con la messa in opera di intonaci più o meno mimetici e viranti in genere verso il giallo- formaggio, pratica che si afferma rispetto a quella pure autorevolmente propugnata di lasciare tinteggiare i Sassi di vari colori secondo il piacere del proprietario. Da questi interventi traspare la volontà di normalizzare i Sassi da trattare come un qualsiasi quartiere dismesso e destinare al meglio ad abitazioni popolari riportandoli negli standard di categorie consuete e accettabili. Eppure lo studio del gruppo diretto da Aldo Musacchio nei primi anni ’70 già chiaramente analizzava l’impossibilità di innescare fenomeni di rilancio dei centri storici con interventi in edilizia economica e popolare (Musacchio 1971). Le scelte effettuate a Matera si spiegano con il ruolo dominante nella città della economia legata alle imprese di costruzione cresciute a partire dalla creazione dei quartieri di sfollamento nei Sassi e ora incapaci di riconvertirsi in imprese di restauro o interessate in questo campo solo a commesse pubbliche a costi elevati. Questo potere edilizio è anche uno dei motivi per cui non si imbocca immediatamente la strada, divenuta in seguito vincente, del recupero dei Sassi ad uso abitativo da parte dei privati, ma quello dei grandi progetti pubblici conferiti a super concessionari. Matera negli anni ‘80 e ‘90 continua ad estendersi occupando tutti gli interstistizi delle periferie. Infine anche l’area centrale retrostante il Comune viene cementificata con il cosiddetto Centro Direzionale un insieme di palazzine che altera gravemente lo skyline dei Sassi già intaccato negli anni precedenti. L’economia preposta a queste operazioni non favorisce il recupero abitativo dei Sassi che costituirebbe una alternativa alla nuova edilizia. In questo periodo i danni più gravi vengono operati sull’aspetto ipogeo e la rete di canalizzazioni e cisterne poiché spesso i detriti di cantiere vengono gettati proprio in queste cavità considerate marginali. Non sfuggono all’occultamento anche segni di più lampante evidenza storica come il caso della trama di sepolture medievali, in genere sovrastanti le chiese ipogee, che viene affogata in una colata di cemento. Si ritiene che la promozione del ritorno degli abitanti sia possibile solo cancellando dai Sassi il marchio dell’arretratezza e introducendo le modernizzazioni, i rinnovi e le omologazioni che soli possano renderli città. In mancanza di una definizione dei valori specifici dei Sassi queste azioni cancellano proprio quegli elementi fragili, ma significativi dell’impegno dell’uomo nell’edificazione dell’ecosistema, distruggendo quegli aspetti di diversità che rendono i Sassi unici e quindi attrattivi rispetto alla città moderna.

Matera patrimonio dell’umanità

Il capovolgimento della immagine dei Sassi rispetto alla visione di miseria e di vergogna si realizza con l’iscrizione nella lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO effettuata nel dicembre 1993. L’avvenimento è di enorme portata. A quel tempo in Italia erano iscritti alla lista solo cinque luoghi, tutti beni aulici e di grande notorietà. Matera è il primo inserimento del Sud d’Italia e l’unico basato sul riconoscimento di valori popolari relativi alla costruzione del paesaggio culturale cosa non affatto scontata in quel periodo. Nel luglio del 1993 il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”si domandava: “Merita questo ric
onoscimento una città che da quando ha avuto i 100 miliardi per la valorizzazione degli antichi rioni ha fatto poco più che aprire cantieri, organizzare convegni fiume e creare uffici singhiozzanti
?” (De Vito 1993). Ancora più drasticamente la rivista Panorama interpretava l’idea nazionalmente diffusa della città scrivendo “nessun paese potrebbe essere peggio di Matera” con i suoi abitanti “appollaiati sui Sassi” (Selvaggi 1993). Dopo il riconoscimento UNESCO il giornale “La Repubblica” titola a tutta pagina “Matera come Venezia” (Malatesta 1993) accreditando a pieno titolo la città tra i beni più blasonati al mondo. Le motivazioni dell’iscrizione Unesco riconoscono nei Sassi un sistema urbano geniale prodottosi nel corso dei millenni grazie alla capacità di utilizzare in modo armonioso le rare risorse locali: l’acqua, la pietra, la luce. I Sassi sono la testimonianza della vicenda lunghissima dell’abitare umano dai primi fossati neolitici, allo scavo delle caverne, alla loro trasformazione in architetture. Il tutto costituisce un sistema globale in cui ogni più piccolo elemento è funzionale e portatore di complessi significati. Dalle patine dei licheni, alle tracce di scavo lasciate nelle grotte, ai segni dei maestri cavatori sui conci di pietra fino alla conformazione delle cavità ipogee, alle articolazioni e frammentazioni degli spazi urbani con le aperture o chiusure sul paesaggio, ogni elemento è funzionale alla pratica architettonica e al controllo del microclima e delle risorse. Ciascuno di questi caratteri deve essere salvaguardato nell’interesse dell’intera umanità. L’UNESCO pubblica documentazioni di Matera in 30 lingue e in 120 paesi del mondo avviando una formidabile campagna di informazione e di studio. Nei tre anni successivi l’ICCROM attua nei Sassi un corso internazionale di restauro con operatori di tutte le nazionalità che dialogano con l’Ufficio Sassi del Comune di Matera e i responsabili locali e organizzano il monitoraggio degli interventi. Questi sono sempre più attuati da concessionari e proprietari privati incentivati dalla notorietà e dal richiamo turistico dei Sassi. Progressivamente migliora la qualità del recupero grazie al dibattito continuo, al confronto delle esperienze e alla attivazione di imprese che usano le tecniche tradizionali. Matera diventa un laboratorio urbano citato come caso di successo a livello internazionale (Laureano 1999). Grazie a questa nuova immagine i Sassi, dove fino alla metà degli anni ’90, non solo le grotte, ma anche palazzi importanti si cedevano a prezzi irrisori, sono oggi richiestissimi, sempre più abitati e in continuo aumento di valore. Oltre 3.000 persone sono tornate a vivervi e sono in corso di restauro abitazioni per una capienza complessiva di circa 7.000 abitanti. Matera è ormai meta di un turismo sempre crescente e il recupero non è più solo la volontà di intellettuali, legislatori e amministratori, ma un processo spinto dai cittadini, sostenuto da investimenti privati e basato su un solido ritorno economico. E’ chiaro che questo pone nuovi problemi. Il nodo non è se i protagonisti del processo siano i vecchi abitanti, i loro figli o piuttosto intellettuali internazionali. Importante è che intervenire, abitare o utilizzare i Sassi comporti il riconoscersi nella qualità e nei valori dei luoghi accettandone le condizioni non convenzionali. Questo non significa un ritorno al passato né la sua museificazione. La pressione determinata dal successo dei Sassi richiede con sempre maggiore forza l’affermazione delle ragioni della conservazione. Proprio l’impegno in questa strategia con la risoluzione delle problematiche di vivibilità conferisce alla città un ruolo propositivo che scaturisce dalla salvaguardia e gestione contemporanea dei suoi valori storici. Dalla capacità di proporre in modo innovativo le tecnologie tradizionali, come il recupero delle cisterne per usare la risorse di acqua di pioggia, l’architettura passiva, l’uso dei terrazzamenti sorretti da muri a secco per evitare le frane e il degrado dei suoli, il ripristino dei giardini pensili per realizzare il verde urbano, il riuso delle grotte e degli ipogei per avere una climatizzazione naturale. E anche da soluzioni nuove che nella logica della tradizione usino tecnologie avanzate capaci di risolvere i problemi della mobilità, dell’energia, delle pulizie e dei servizi urbani. L’esperienza guida di Matera è generalizzabile ai centri dell’entroterra lucano e ai sistemi di habitat delle Gravine che hanno caratteristiche architettoniche e ambientali del tutto simili, ma sono ancora esenti da processi di valorizzazione analoghi. Costituisce un esempio formidabile per i paesi del Sud del Mediterraneo e contribuisce in modo concreto alla problematica della città sostenibile prospettiva promossa in tutte le sedi internazionali. Il restauro attento crea nuove professionalità e riabilita antichi mestieri e identità emarginate ponendo le basi per ulteriori possibilità di sviluppo economico e umano: la conservazione dei segni fisici diventa salvaguardia di quelli immateriali, recupero di identità e di valori culturali e spirituali.

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